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mercoledė, 17  giugno 2020



17:00:00
Silos di Barletta, cilindri sospesi sull'orizzonte marino
Le ragioni politiche, culturali ed estetiche del dibattito Giuseppe Tupputi



Architettura, paesaggi e rimandi visivi legano la purezza formale dei silos alla complessità storica della cattedrale di Trani. Entrambe le architetture, per la loro posizione a livello territoriale e per il loro aspetto formale sembrerebbe siano lì a difesa del proprio bacino d'acqua: simboli di accoglienza per chi giunge dal mare, elementi in grado di dar misura al tratto di costa che lega Barletta a Trani, forme sospese sull'acqua e protese verso il cielo.

Questi i punti cardine del testo proposto dall'arch. Giuseppe Tupputi, Dottore di ricerca (2019) Architetto (2015), attualmente Assegnista di ricerca presso il Politecnico di Bari (dicar) e la Regione Puglia - Dipartimento Paesaggio. Vincitore premio maggia 2019, partecipa a concorsi, workshop, convegni e seminari nazionali e internazionali.
 
Un nuovo punto di vista sui silos della nostra città. Un ulteriore tassello utile alla lettura del ruolo dei silos granari nel nostro contesto territoriale e paesaggistico. Un nuovo contenuto in grado di dare forza e spessore alle riflessioni condotte sui silos granari di Barletta in vista dell'evento espositivo on-line ''NUDGE: L'ARCHITETTURA delle SCELTE'' (a cura degli arch. Massimiliano Cafagna ed M. Alessandra Rutigliano).
https://www.facebook.com/events/663936174156588/
 
Dopo l’accordo firmato a febbraio tra l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale e l’azienda Silos Granari della Sicilia srl (società del Gruppo Casillo) per attivare la procedura per la demolizione dei silos granari del porto di Barletta, è nato un acceso dibattito pubblico che vede protagonisti, appunto, i silos. Da un lato, esaurita nel 2018 la loro originaria funzione di stoccaggio dei prodotti agricoli, alcuni credono che sia giusto demolire questi insoliti manufatti posti a picco sul mare, per lasciare spazio a nuove strutture portuali, o per abbattere i costi legati ad eventuali operazioni di trasformazione e/o di manutenzione. Dall’altro lato, vi è invece un gruppo di cittadini che chiede di ‘salvare’ dalla demolizione questi manufatti architettonici risalenti al 1973 e di aprire un tavolo di dibattito volto a ricercare nuove idee per la trasformazione, per il restauro, per il riuso: strategie ritenute come valide alternativa alla demolizione.

Ad ogni modo, credo sia bene specificare che questo dibattito si inserisce all’interno di un più ampio quadro, in cui l’intero porto di Barletta, perduta (almeno in parte) la sua storica vocazione commerciale legata al ruolo industriale che la città ha avuto nei passati decenni, si apre a nuove possibilità, a nuovi scenari (accattivanti ma, per molti versi, anche rischiosi) dello sviluppo turistico/ricettivo.

Il “turismo”, lo “sviluppo” (come sono state la “modernizzazione” e l’”industrializzazione”) sono parole certamente importanti per i nostri territori; ma sono anche molto rischiose. Vanno assolutamente accompagnate da una visione etica legata al concetto di territorio come “bene comune”, come “spazio per vivere” e non come “risorsa da vendere”, scrive l’antropologo Ugo Morelli.

Per questo motivo, credo sia indispensabile che la trasformazione del nostro patrimonio (che vive nelle sue molteplici forme architettoniche, paesaggistiche, ambientali, storico-culturali, ecc.) vada inserita all’interno di un più allargato dibattito pubblico, politico e culturale, il cui scopo dovrebbe essere quello di ricordare il valore collettivo di tali oggetti e/o contesti e, più in generale, dell’intero territorio inteso come “bene comune”.
È dunque importante che la cittadinanza sia stimolata, coinvolta e chiamata innanzitutto a ri-conoscere e in secondo luogo ad esprimersi sulle sorti della città, dei suoi luoghi pubblici, così come della conformazione del suo skyline e del suo waterfront. Soltanto attraverso questo esteso coinvolgimento si può garantire lo sviluppo etico delle trasformazioni urbane.
 
Perciò, tornando al discorso sui silos, credo in primis che sia non solo giusto, ma anche necessario e urgente parlarne, discuterne, allargando il campo del dibattito anche alle più generali idee di sviluppo dell’area portuale, soprattutto immaginando un suo nuovo e più amichevole rapporto con la città consolidata che, ad oggi, volta ancora le spalle al mare. In secondo luogo, la possibilità di salvaguardare lo skyline marittimo completo dei silos ben si inserirebbe nella più ampia visione strategica di re-immaginare lo sviluppo della città di Barletta proprio a partire dalla reinterpretazione critica del suo ampio patrimonio industriale dismesso, di quei grandi contenitori abbandonati che oggi si aprono a nuove proficue possibilità di trasformazione intelligente e sostenibile.

Infine, intesi nel loro essere puri volumi plastici protesi verso l’orizzonte marino, i silos di Barletta possiedono alcuni peculiari caratteri estetici ed identitari che restituiscono un significativo valore territoriale e architettonico a queste grandi strane forme che sembrano quasi emergere dall’acqua. Sia visti dal mare che visti dalla terraferma, questi monumentali cilindri raccolti in un’unica figura costituiscono un punto emergente, un landmark, capace di segnalare anche a grandi distanze l’arrivo della città sul mare, ovvero di rendere esplicita la presenza di un bacino portuale di tipo commerciale (o, perlomeno, ex-commerciale).

Quest’architettura si definisce come una vera e propria ‘lanterna’, come un segnacolo a scala territoriale: la sua estroflessione nello specchio d’acqua del bacino portuale di Barletta le permette, infatti, di dialogare a distanza con un altro caposaldo territoriale, la cattedrale di Trani, che fa capolino in lontananza, a sud, sulla linea di costa, stagliandosi anch’essa a picco sul mare coi suoi volumi puri in marmo bianco che risplendono al sole.
Questi due elementi tanto diversi tra loro per tipo, forma e funzione, sembrano dialogare a distanza; quasi per caso, si sono ritrovati a racchiudere un tratto di mare (e, al contempo, a delimitare un ampio tratto di costa), definendo come un’unica stanza territoriale, che appare individuabile, appunto, proprio grazie alla presenza di questi due volumi emergenti.

Inoltre, per una curiosa fatalità, questi due oggetti, astratti da qualsivoglia rapporto storico, funzionale, rappresentativo e/o simbolico, e osservati esclusivamente nel loro essere pure forme che si stagliano in lontananza, magari in un pomeriggio estivo, in mezzo al blu accecante del mare, sono caratterizzati dalla gagliarda presenza del cilindro: una forma che, bagnata dal sole, esprime al meglio la sua vocazione plastica, scultorea, cangiante col trascorrere delle ore e col mutare della luce. La convessità morfologica del cilindro si trova dunque casualmente in analogia con la convessità posizionale che i silos e la cattedrale di Trani assumono rispetto alla forma della linea di costa.

Concedendosi una digressione poetica, il risultato consiste nel fatto che, quando il cielo è terso, soprattutto all’alba o al tramonto, quando le ombre o l’assenza di ombre determinano più netti i contorni delle figure che si stagliano nel paesaggio, questi cilindri – forse per caso – dialogano tra loro, grazie allo sguardo dell’uomo che vi si posa assorto, da quasi cinquant’anni e, osservandoli bene, immagina che abbiano ancora molte cose da dirsi, assorti nel melanconico e rasserenante orizzonte marino. Ma torniamo a noi. Che fare, dunque?
 
foto_Alberto Simone-Massimiliano Cafagna
 


Redazione



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